giovedì 13 gennaio 2011

Inadatti a vivere

I saggi si sforzano di insegnarci l'impassibilità, ma essendo nati da un atto di insubordinazione e di rifiuto eravamo poco preparati all'indifferenza, e a renderci del tutto inadatti è intervenuto il “sapere”. Il principale rimprovero che dobbiamo muovere nei confronti del sapere, è di non averci aiutato a vivere. Ma era poi quella la sua funzione?
Specializzati nelle apparenze, esercitati nei nonnulla, accumuliamo conoscenze che ne sono il riflesso, dato che la nostra scienza è riproduzione della nostra falsa innocenza.
Inadatti a vivere fingiamo la vita, e giacché il nostro culto dell'imminente si avvicina all'estasi, cadiamo in deliquio davanti a ciò che ignoriamo, davanti all'istante che attendiamo, in cui speriamo di esistere, e in cui invece esisteremo altrettanto poco che nell'istante precedente.
Avendo spogliato il presente della sua dimensione eterna, non abbiamo ormai altro che la volontà, nostra grande risorsa, e nostro castigo. Ma a furia di voler essere “altro”, finiamo per non essere niente.

mercoledì 5 gennaio 2011

La Cabala ebraica

"In ogni religione" scrive Z'ev ben Shimon Halevi "ci sono sempre due aspetti, quello visibile e quello nascosto". L'aspetto visibile si manifesta come ritualità, testi scritturali, funzioni religiose, quello nascosto alimenta la luce che dovrebbe illuminare quelle forme. Nel giudaismo, gli insegnamenti nascosti sono chiamati cabala. Questi insegnamenti, si dice, ebbero origine dagli angeli.
La cosmologia della cabala postula una realtà a più livelli: ogni livello è un mondo in sé completo, collocato gerarchicamente, e la parte superiore di ognuno corrisponde all'aspetto inferiore di quello sopra. La sfera più alta è quella di Metatron, l'arcangelo che insegna agli esseri umani.
Ogni livello incarna uno stato di coscienza, e la maggior parte delle persone sono ai livelli più bassi vivendo una vita meccanica, legata ai ritmi del corpo, alle reazioni e percezioni abituali. La cabala cerca di aprire gli occhi del discepolo sulle sue limitazioni e di educarlo a entrare nello stato di coscienza in cui può essere in sintonia con una consapevolezza più alta, non più schiavo dei condizionamenti.
Per diventare libero, l'aspirante cabalista deve per prima cosa cancellare le illusioni sui giochi della vita. Per compiere questo percorso, il cabalista deve osservare l'attività dello yesod (la sua mente o ego comune) in modo da percepire le sue autoillusioni e portare a consapevolezza le forze inconsce che regolano i suoi pensieri e le sue azioni. Questo livello di coscienza è detto tiferet. Il tiferet è al di là della mente ordinaria, qui l'ego è trasceso.
Gli elementi specifici dell'esercizio del cabalista variano da scuola a scuola, benché i cardini siano pressoché costanti. Uno dei sistemi più famosi è l'"albero della vita" (Sephiroth), una mappa delle gerarchie e degli attributi che interagiscono nel mondo e all'interno dell'uomo. L'albero è un'immagine attraverso la quale l'aspirante cabalista osserva la propria natura, ma i suoi studi non varranno a nulla se egli trascura il suo sviluppo spirituale. Il prerequisito fondamentale è l'esercizio del controllo sulla volontà, la capacità di mantenere l'attenzione e la consapevolezza. Per questo il cabalista si dedica alla meditazione.
Le istruzioni per la meditazione fanno parte degli insegnamenti segreti e, a parte le regole generali, non sono rese pubbliche. Ogni discepolo impara dal suo maggid. La concentrazione meditativa permette al cabalista di scavare nelle profondità di un particolare oggetto di meditazione (una preghiera o un aspetto dell'albero) e di arrestare così il suo pensiero. Questa focalizzazione è definita kavvanah.
Secondo la dottrina cabalistica la kavvanah senza la giusta guida ed una corretta preparazione spirituale può essere persino pericolosa.
La fine del cammino è il devekut, in cui l'anima aderisce a Dio. Quando il meditatore stabilizza la sua coscienza a questo livello, non è più un uomo normale ma uno zaddik, un santo, che è sfuggito alle catene del suo ego. Le qualità di chi abbia raggiunto questa condizione includono: imperturbabilità, indifferenza a lode o biasimo, mente quieta e controllata, capacità profetica.
(Fonte: D. Goleman)

martedì 21 dicembre 2010

Il sorriso eterno

Alla fine scorsero molto lontano una debole luce. Brillava quieta, ma così fievole che appena riuscirono a distinguerla nel gran buio. Andarono verso di essa. Dopo molti anni la luce cominciò ad avvicinarsi.
La raggiunsero: era una piccola lanterna, coi vetri offuscati, che mandava all'intorno un quieto chiarore. Vicino ad essa stava un vecchio, intento a segare. Capirono che era dio.
Era curvo e basso, ma possente di corporatura. Aveva le mani ruvide di chi ha fatto per tutta la vita uno stesso lavoro, senza mai riposare. Il suo viso rugoso esprimeva la stanchezza e una malinconica gravità. Il vecchio non si accorse di loro, e quelli ristettero, colpiti da stupore alla sua vista.
Lo fissarono, senza capire. I più lontani si alzavano sulle punte dei piedi per poter vedere a loro volta; un mormorio si propagò da uomo a uomo, un mormorio sempre più sordo.
in testa a tutti stavano i più nobili: uomini dai lineamenti spirituali, coi visi nei quali fremeva la vita riposta nell'anima, con occhi accesi da una pena segreta.
"Sei tu dio?" cominciarono con voce tremante "Dunque, sei tu dio?"
Il vecchio alzò verso di loro uno sguardo smarrito. Non rispose, ma fece con la testa un cenno affermativo.
"E stai lì a segare?" esclamarono.
Il vecchio non rispose. Si asciugò l'orlo della bocca col dorso della ruvida mano, e si guardò intorno intimidito.
"Noi siamo i vivi" cominciarono "Siamo la vita che tu hai prodotto. Siamo tutti i vivi. Abbiamo lottato e sofferto, dubitato e creduto, brancolando abbiamo camminato nel buio, abbiamo cercato, intuito e bramato, abbiamo cercato noi stessi sino agli estremi confini del nostro essere... Che intendesti fare di noi?"
Il vecchio li ascoltò smarrito e afflitto. Soltanto ora pareva aver ben capito chi essi fossero.
Alzò uno sguardo sbigottito di solitario e lo portò sull'ondeggiante marea umana che si era fermata davanti a lui. La percorse: dovunque i suoi occhi guardavano, essa continuava, non c'era una fine; miliardi e miliardi di esseri, un numero incalcolabile.
Si ricordò si se stesso, abbassò gli occhi, timido e goffo. Non aveva ancora deposto la sega. Le sue vesti, vecchie e logore, sembravano ancor più tali. Si passò una mano sui capelli grigi e lasciò ricadere il braccio. Ora che non lavorava, pareva non saper che cosa fare delle proprie mani.
"Io sono un uomo semplice" cominciò alla fine con voce sommessa
"Io non ho inteso la vita come qualcosa di notevole" proseguì con tono rassegnato.
"Qualcosa di notevole!" tuonò la moltitudine "Udite! Udite! Qualcosa di notevole" Ma è orribile!"
Il vecchio si sentì sopraffatto. Non sapeva dove tenere le grandi mani. Curvò ancor più la grigia testa. Videro che soffriva e lottava.
"Ho fatto meglio che ho potuto" disse con voce bassa.
Vi era qualcosa di commovente in quella risposta, in quell'incapacità a tirarsi d'impiccio.
"Tu ci hai precipitati nel dolore e nel tormento, ci hai precipitati nell'angoscia e nell'inquietudine torturante, in abissi senza nome; ci hai fatto soffrire, hai lasciato che languissimo, disperassimo. Perché? Perché?"
Il vecchio rispose con voce sempre più bassa:
"Ho fatto meglio che ho potuto. Ho lavorato senza cedere alla stanchezza, sono stato sul mio lavoro da quando mi ricordo. Non ho voluto niente. Non avevo alcun disegno. Allora ero soltanto felice"
Nessuno parlava più. Non avevano nulla da dire; tacevano, non perché oppressi, ma per la piena del cuore. Tacevano per intendere tutto, perché vi fosse silenzio perfetto; abbandonavano se stessi per partecipare a ciò che era accaduto.

(P. Lagerkvist)

giovedì 16 dicembre 2010

Provo piacere o sono piacere?

Il nostro linguaggio di tutti i giorni conosce troppo poche sfumature di significato per rendere onore a Epicuro e alla sua dottrina. E nemmeno il linguaggio erudito colma appieno questa lacuna, perché pochi settori della psicologia sono stati bistrattati e trascurati quanto la teoria degli affetti e dei sentimenti. L'antico filosofo rappresenta una splendida eccezione. Per Epicuro, per esempio, sarebbe ovvio distinguere fra "piacere" e "voluttà", fra "piacere" e "desiderio". Il linguaggio quotidiano, invece, che pensa e scrive per noi, le considera distinzioni cavillose - con grande svantaggio per tutti, oltre che per l'interpretazione di Epicuro. Osiamo quindi richiamare l'attenzione su tali "cavillosità": si capirà presto quanto sia profonda una massima di Epicuro che altrimenti potrebbe essere liquidata con una scrollata di spalle: "Solo la virtù è inseparabile dal piacere, tutto il resto invece è separabile come, per esempio, i cibi".
Premessa fondamentale per la comprensione di questa frase è la differenza fra "piacere" e "godimento", e fra "piacere" e "desiderio". Riassumendo si potrebbe dire: il piacere è una condizione tranquilla, una stasi, non un "movimento" come il desiderio, e nemmeno una presa di distanza come il godimento. Se godo di qualcosa, in parte sono presso me stesso, in parte presso l'oggetto, mentre nella condizione del piacere semplicemente sono, senza prendere alcuna distanza.
Lo specchio nella camera da letto potrebbe essere il simbolo adatto per il gaudente per metà coinvolto nel piacere e per metà distaccato: si gode, per così dire, attraverso un impegno parziale, una specie di piacere strabico, non ci si dona totalmente, né si è totalmente presi. Nel piacere puro mi schiudo: "fermati, sei così bello" dico all'attimo. Come scrive Nietzsche, ogni piacere esige l'eternità, mentre il dolore dice: passa!
Non ci si lascia andare completamente al "godimento", bensì si trae piacere da un oggetto di godimento separato da se stessi. Si prende posizione tenendosi a distanza.
Il linguaggio della fenomenologia ci consente di chiarire una caratteristica del piacere: non bisognerebbe dire "provo" piacere, bensì "sono" piacere, poiché la mia coscienza ne è totalmente coinvolta, mentre se dico che lo provo presuppongo una distanza fra il soggetto e l'oggetto del godimento. Per dirla in termini epicurei: chi gode ha già "separato" il quid del piacere.
Consideriamo per esempio il piacere erotico, così grossolano eppure in sè così tenero ("infantile" direbbe Freud). Il godimento erotico distanzia il partner, lo trasforma in un oggetto sessuale. Il piacere invece non distanzia, evitando di reificare l'oggetto nell'unico modo consentito al linguaggio; lo "assapora" inventando diminutivi e vezzeggiativi: la "cosa" e il "coso" vengono teneramente infantilizzati. Le donne la sanno lunga in materia, senza necessariamente conoscere Epicuro...
Seneca, uno tra i pochi stoici che presero le difese di Epicuro, scrisse per l'appunto: "Epicuro era un eroe, ma in abiti femminili".
Ma torniamo al piacere: se già il godimento intacca in qualche misura il piacere, il desiderio lo danneggia definitivamente, il desiderio rappresenta un movimento verso l'oggetto del piacere, che di per sé non è affatto piacere! Incita, ma non sa soffermarsi, provoca lo stress del raggiungimento.
Il piacere può quindi essere considerato "passivo" rispetto al desiderio che invece è "attivo".
Nel rapporto sessuale, che Sartre, con rozzezza solo apparente, considerava essenzialmente un rapporto sado-maso, c'è una certa parvenza di attività, in realtà c'è tanto poca azione quanto nel piacere di un bevitore nella sua bottiglia piena.
Se la differenza tra piacere, godimento e desiderio è chiara, allora non c'è più alcuna difficoltà a capire perché per Epicuro il piacere e la felicità siano identificati con la tranquillità. 
 

Ascolta "Provo piacere o sono piacere?" su Spreaker.

domenica 12 dicembre 2010

Homo Ridens

E' strano che la maggior parte dei filosofi abbia considerato seriamente quasi tutto, tranne il riso. Il ridicolo, il "brutto innocuo" (Lessing), è evidentemente troppo inoffensivo, troppo "poco nobile" (Aristotele) per essere fatto oggetto di una riflessione orientata a coglierne l'essenza. Le categorie dei filosofi che ridono - gli ironici, i satirici, gli umoristi - si sono accontentate di utilizzare il comico come forma di comunicazione, cioè hanno elaborato e considerato il comico come problema estetico. Ma questo non è tornato a vantaggio del comico, considerato come strumento per mettere in dubbio il bello e il sublime, e quindi come una specie di concetto limite dell'estetica. Nemmeno la "Iniziazione all'estetica" di Jean Paul poté eliminare del tutto questo carattere indefinito, anche se nell'opera di Jean Paul, come nel romanticismo in generale, una forma del comico, l'ironia romantica, diventa una "sfera dell'esistenza" (Kierkegaard).
Si ride da quando esiste l'umanità, ma la dignità del comico ottiene un fondamento solo più tardi. Era necessaria una legittimazione della coscienza del limite, una comprensione esistenziale della verità. Fintanto che la verità era ritenuta afferrabile col pensiero solo da chi fosse in possesso di mezzi adeguati, anche la coscienza dei limiti diventava una disserzione sospetta, una capitolazione precipitosa di fronte alla fatica del concetto. Chi rideva si semplificava la vita, rinunciava al cammino angusto e faticoso che conduce alla meta. "Guai a voi che ridete, perché sarete afflitti e piangerete!" (Luca, 6,25).
Da un punto di vista antropologico si poté concedere che il riso, come del resto anche il pianto, faccia parte di quegli affetti "mediante i quali la natura promuove meccanicamente la salute" (Kant). In linea di principio però il riso e il comico restano un pudendum. Giustificare il comico significherebbe che l'intero sistema del mondo ben ordinato della serietà, insieme alla sua importanza per l'uomo che vi si inserisce e vi si orienta, sono precari, caduchi, se non addirittura bacati!
Oggi ci si chiede: cos'è il riso? Dopo matura riflessione si è giunti a stabilire che "non vi è nulla di buono, di bello, di sublime, di malvagio o di orribile in sé, bensì stati d'animo, in cui attribuiamo tali parole a cose che sono fuori e dentro di noi. Ci siamo ripresi di nuovo i predicati delle cose, o per lo meno ci siamo ricordati che noi li abbiamo prestati ad esse" (Nietzsche). Per inciso: la meccanica del riso a seguito di un impulso elettrico, del solletico, o della lettura di una storia comica è sempre la stessa!
Infine la teoria dell'espressione di Ludwig Klages ha preso in "seria" considerazione l'esigenza di fare delle stato d'animo dell'individuo che ride un punto di partenza per una teoria del riso: l'homo ridens non è più una degenerazione dell'homo sapiens.

2500 anni fa Buddha Sakyamuni spiegava che non c'è miglior tecnica spirituale per raggiungere l'illuminazione del riso...

giovedì 9 dicembre 2010

"Provai paura. Sembrava qualcosa di sovrumano. Niente di divino o diabolico, ma qualcosa che sembrava toccare direttamente, all'origine, la causa per cui un essere umano è un essere umano.
Fu questo a farmi paura. Questo qualcosa che è raro riuscire a toccare anche nel corso di tutta una vita. Che assomiglia a guardare direttamente un abisso profondo di cui è impossibile vedere la fine.
O come guardare il sole, senza protezione."

(B. Yoshimoto)

giovedì 25 novembre 2010

Il sutra di Hakuin

"Sin dal principio tutti gli esseri sono dei Buddha.
E' come l'acqua e il ghiaccio:
senza acqua non c'è ghiaccio,
al di fuori degli esseri viventi non c'è Buddha.
Non sapendo che è vicino, lo si cerca lontano.
Che peccato!
E' come essere nell'acqua e lamentarsi per la sete.
La causa del nostro vagabondare attraverso i sei mondi
è che viviamo nell'oscuro sentiero dell'ignoranza.
Di oscuro sentiero in oscuro sentiero...
quando sfuggiremo al ciclo delle rinascite?
La meditazione Mahayana va oltre ogni nostra lode.
Tutto riporta alla pratica della meditazione.
Grazie ad una sola seduta
si distruggono innumerevoli eoni di karma negativo.
Come potrebbero esserci sentieri sbagliati?"

(Hakuin, maestro Zen del XVII secolo)


"Sin dal principio tutti gli esseri sono dei Buddha".
Quest'unica frase è sufficiente. E' l'inizio, il centro e la fine. E' tutto.
Lo Zen chiama questa frase "il ruggito del leone". In un colpo solo questa frase ti ha liberato, ti ha salvato da te stesso: tu sei un Buddha.
Con una frase Hakuin ha concluso. Il resto del canto è per coloro che non sono in grado di capire la prima affermazione.

lunedì 22 novembre 2010

La cultura impone costrizioni

La cultura impone costrizioni non solo alla sua esistenza nella società, ma anche alla sua esistenza biologica, e non solo a settori della sua esistenza umana, ma alla sua struttura istintuale stessa.
Ma queste costrizioni sono la condizione preliminare del progresso. Lasciati liberi di perseguire i loro obiettivi naturali, gli istinti fondamentali dell'uomo sarebbero incompatibili con ogni duratura associazione e conservazione: distruggerebbero perfino ciò che abitualmente uniscono.
L'Eros incontrollato è altrettanto funesto del suo antagonista, l'istinto di morte. La loro forza distruttiva deriva dal fatto che essi tendono ad una soddisfazione che la cultura non può concedere: alla soddisfazione come tale e fine a se stessa, in qualsiasi istante.
Gli istinti devono quindi essere deviati dalla loro meta, ed essere inibiti nel loro scopo. La civiltà comincia quando si è rinunciato efficacemente all'obiettivo primario, alla soddisfazione integrale dei bisogni.
Le vicissitudini degli istinti sono le vicissitudini dell'apparato psichico nella civiltà. Gli impulsi animali diventano istinti umani sotto l'influenza della realtà esterna. Freud descrisse questo cambiamento come la trasformazione del principio del piacere in principio della realtà.


(H. Marcuse, 1955)

martedì 16 novembre 2010

Il principio della performance

Il principio della realtà nel nostro ordinamento sociale assume un aspetto particolare che viene definito da Marcuse "principio della performance". Questo concetto della prestazione, del rendimento, della produzione non è certo nuovo come oggetto di critica, in Marcuse però la performance assume un significato più generale e viene criticato in quanto principio normativo di tutti i rapporti umani nella società industriale avanzata. Ciò non impedisce, tuttavia, che esso sia anche un problema politico e obbedisca ai modi dello sviluppo capitalista. Da questo punto di vista si può dire che il principio della performance appare come una norma etica che corrisponde alla fase della mercificazione del lavoro: esso riassume in un solo concetto sia la maggior autonomia di decisioni dell'operaio e del tecnico moderno, sia, allo stesso tempo, i più stretti vincoli di questi ai principi generali che informano il procedere dell'azienda. Questo particolare tipo di principio della realtà pretende l'inserimento totale del lavoratore in un meccanismo che di fatto gli sottrae la possibilità di prendere decisioni importanti, cioè in un meccanismo che inserisce ogni sua azione in una situazione già scelta, e predetermina ogni sua scelta in funzione di un criterio del rendimento che ne orienta l'azione verso interessi che non gli appartengono.

giovedì 4 novembre 2010

La somministrazione controllata della libertà sociale

Certamente si ha il diritto di mettere in pratica la non-repressività anche all'interno della società costituita: dalle stravaganze dell'abbigliamento agli espedienti più folli della vita diurna e notturna. Ma nella società costituita questo genere di proteste si muta in uno strumento di stabilizzazione e perfino di  conformismo, poiché non solo lascia intatte le radici della malattia sociale, ma anche testimonia di una illusoria libertà individuale all'interno della repressione generale.
E' certamente un bene che queste libertà del privato siano ancora praticabili e praticate, ma la generale mancanza di libertà sociale conferisce loro un significato regressivo. Un tempo questi sfoghi individuali della repressione erano privilegio esclusivo di una limitata classe alta, mentre in condizioni eccezionali venivano concessi anche agli altri strati meno privilegiati della popolazione. In contrasto a ciò, la civiltà industriale avanzata democratizza le autorizzazioni allo sfogo.
Questa forma di compenso serve a rafforzare il governo che la consente, e le istituzioni che somministrano il compenso.