E' strano che la maggior parte dei filosofi abbia considerato seriamente quasi tutto, tranne il riso. Il ridicolo, il "brutto innocuo" (Lessing), è evidentemente troppo inoffensivo, troppo "poco nobile" (Aristotele) per essere fatto oggetto di una riflessione orientata a coglierne l'essenza. Le categorie dei filosofi che ridono - gli ironici, i satirici, gli umoristi - si sono accontentate di utilizzare il comico come forma di comunicazione, cioè hanno elaborato e considerato il comico come problema estetico. Ma questo non è tornato a vantaggio del comico, considerato come strumento per mettere in dubbio il bello e il sublime, e quindi come una specie di concetto limite dell'estetica. Nemmeno la "Iniziazione all'estetica" di Jean Paul poté eliminare del tutto questo carattere indefinito, anche se nell'opera di Jean Paul, come nel romanticismo in generale, una forma del comico, l'ironia romantica, diventa una "sfera dell'esistenza" (Kierkegaard).
Si ride da quando esiste l'umanità, ma la dignità del comico ottiene un fondamento solo più tardi. Era necessaria una legittimazione della coscienza del limite, una comprensione esistenziale della verità. Fintanto che la verità era ritenuta afferrabile col pensiero solo da chi fosse in possesso di mezzi adeguati, anche la coscienza dei limiti diventava una disserzione sospetta, una capitolazione precipitosa di fronte alla fatica del concetto. Chi rideva si semplificava la vita, rinunciava al cammino angusto e faticoso che conduce alla meta. "Guai a voi che ridete, perché sarete afflitti e piangerete!" (Luca, 6,25).
Da un punto di vista antropologico si poté concedere che il riso, come del resto anche il pianto, faccia parte di quegli affetti "mediante i quali la natura promuove meccanicamente la salute" (Kant). In linea di principio però il riso e il comico restano un pudendum. Giustificare il comico significherebbe che l'intero sistema del mondo ben ordinato della serietà, insieme alla sua importanza per l'uomo che vi si inserisce e vi si orienta, sono precari, caduchi, se non addirittura bacati!
Oggi ci si chiede: cos'è il riso? Dopo matura riflessione si è giunti a stabilire che "non vi è nulla di buono, di bello, di sublime, di malvagio o di orribile in sé, bensì stati d'animo, in cui attribuiamo tali parole a cose che sono fuori e dentro di noi. Ci siamo ripresi di nuovo i predicati delle cose, o per lo meno ci siamo ricordati che noi li abbiamo prestati ad esse" (Nietzsche). Per inciso: la meccanica del riso a seguito di un impulso elettrico, del solletico, o della lettura di una storia comica è sempre la stessa!
Infine la teoria dell'espressione di Ludwig Klages ha preso in "seria" considerazione l'esigenza di fare delle stato d'animo dell'individuo che ride un punto di partenza per una teoria del riso: l'homo ridens non è più una degenerazione dell'homo sapiens.
2500 anni fa Buddha Sakyamuni spiegava che non c'è miglior tecnica spirituale per raggiungere l'illuminazione del riso...
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