Nella Vienna dei primi
decenni del Novecento Karl Popper (1902-1994) si poneva il problema
di stabilire un confine tra scienza e non-scienza. Nel suo caso, ciò
significava decidere se e perché teorie come la relatività, la
psicanalisi o il marxismo potevano dirsi scientifiche. Emblematico e
decisivo è un episodio relativo al periodo di studio svolto col
psicologo sociale Alfred Adler (1870-1937): «L’elemento più
caratteristico di questa situazione mi parve il flusso incessante
delle conferme, delle osservazioni, che “verificavano” le teorie
in questione; e proprio questo punto veniva costantemente
sottolineato dai loro seguaci. Un marxista non poteva aprire un
giornale senza trovarvi in ogni pagina una testimonianza in grado di
confermare la sua interpretazione della storia […] Gli analisti
freudiani sottolineavano che le loro teorie erano costantemente
verificate dalle loro “osservazioni cliniche”. Quanto ad Adler,
rimasi colpito da un’esperienza personale. Una volta, nel 1919, gli
riferii di un caso che non mi sembrava particolarmente adleriano, ma
egli non trovò difficoltà ad analizzare nei termini della sua
teoria dei sentimenti di inferiorità, pur non avendo nemmeno visto
il bambino. Un po’ sconcertato, gli chiesi come poteva essere così
sicuro. “A causa della mia esperienza di mille casi simili”, egli
risposte, al che non potei trattenermi dal commentare: “E con
quest’ultimo, suppongo, la sua esperienza vanta milleuno casi”»
(Congetture e confutazioni, 1969, il Mulino).
L’episodio è
particolarmente illuminante della difficoltà che incontra il metodo
verificazionista dal punto di vista di Popper. Anche se, come
sostenevano i primi neopositivisti, tutta la metafisica può essere
espunta dal novero degli enunciati empiricamente controllabili,
purtroppo esistono ugualmente teorie supportate da un alto numero di
conferme e che tuttavia non possono dirsi scientifiche: è il caso
della psicanalisi, del marxismo, e in generale di ogni teoria sulla
realtà che cerchi verifiche alle sue previsioni. E’ sempre
possibile, infatti, per chi le cerca, trovare delle conferme, o
reinterpretando i fatti, o correggendo il significato dei termini, o
semplicemente selezionando tra i fatti quelli che rispondono alle
proprie aspettative.
Non è sbagliato cercare di demarcare scienza e
non-scienza, né cercare nell’esperienza un criterio per tale
demarcazione. Ciò che è sbagliato è aspettarsi dall’esperienza
una verifica, una conferma. L’esperienza, per Popper, non potrà
mai verificare una teoria: ma, se quella teoria è scientifica, potrà
falsificarla. Mentre un fatto unico basta a rendere falsa una teoria
scientifica (come ci insegna il modus tollens della logica classica),
nessuna teoria scientifica può essere resa vera, nemmeno da
moltissimi fatti (come ci insegna l’avvertenza di non cadere nella
fallacia dell’affermazione del conseguente). A questo proposito,
Popper parla di asimmetria fra verificazione e falsificazione. Per
falsificare un enunciato basta un fatto che lo contraddica, mentre
per verificarlo ne servirebbero infiniti. Tuttavia, a differenza del
criterio di verificazione per i neopositivisti, la falsificazione è
per Popper solo un criterio di demarcazione, non di significato.
Chissà perché questo
piccolo caffè mi piace tanto. È sporco e triste, triste... Se
almeno qualcosa lo distinguesse da centinaia d'altri. Macché. Oppure
se ogni giorno ci venissero gli stessi tipi strani e da un angolo si
potesse osservarli, riconoscerli e più o meno (con l'accento sul
meno) abituarcisi. Ma vi prego, non immaginate che quelle
parentesi siano una mia confessione di umiltà dinanzi al mistero
dell'animo umano. No, no davvero. Io non ci credo all'animo
umano. Non ci ho mai creduto. Secondo me le persone sono come
valigie - riempite con questo e quello, spedite, buttate di qua e di
là, scaraventate in aria, sbattute per terra, perdute e ritrovate, a
un tratto vuotate a metà, o stipate da scoppiare, fino a che
l'Ultimo Facchino le lancia sull'Ultimo Treno, e filano via
sferragliando... Eppure, queste valigie possono avere un grande
fascino. Oh, grandissimo! Mi ci vedo di fronte, sapete, come un
doganiere. “Niente da dichiarare? Vini, liquori, sigari,
profumi, seta?” E il breve attimo di esitazione, subito prima
di buttare giù con il gesso il classico scarabocchio, al pensiero
che stiano per farmela, e l'altro attimo subito dopo, al pensiero che
me l'abbiano fatta, sono forse i due istanti più emozionanti
dell'esistenza. Almeno per me. Ma prima di cominciare questa
lunga, peregrina, e in fondo non originalissima digressione,
intendevo dire con tutta semplicità che qui non c'è nessuna valigia
da esaminare, perché la clientela di questo caffè, signore e
signori, non si mette a sedere. No, resta in piedi, al banco, e si
compone di un gruppetto di operai che vengono su dal fiume, tutti
impolverati di farina bianca, calce o qualcosa di simile, e di pochi
soldati, accompagnati da ragazzette magre e nere, con anelli
d'argento agli orecchi e il braccio infilato nel paniere della
spesa. Anche Madame è magra e nera, con le guance bianche e le
mani bianche. Con certe luci sembra proprio trasparente, risplende,
nel suo scialle nero, con un effetto straordinario.
Quando non serve siede su
uno sgabello col viso rivolto sempre alla finestra. I suoi occhi
cerchiati di scuro frugano e inseguono la gente che passa, e pure non
cercano. Forse, quindici anni or sono, cercavano, ma ora quella posa
si è fatta abitudine.
S'indovina dalla sua aria
stanca e scorata, che vi ha rinunciato da almeno dieci anni. E poi
c'è il cameriere. Non patetico, decisamente non comico.
Mai che faccia una di
quelle osservazioni totalmente insignificanti che stupiscono tanto in
bocca a un cameriere...
(Incipit dal racconto "Je ne parle pas français" di Katherine Mansfield - Adelphi)
Quest'anno
(2021) quest'anno si celebrano i 700 anni dalla morte di Durante
Allegherii. Meglio noto come Dante!
Libri,
articoli, trasmissioni televisive e radiofoniche su di lui si
sprecano, ho pensato quindi di celebrarlo narrandovi 10 cose che
(forse) non sapete su di lui.
1)
Campaldino
Nel
giugno 1289, nella Piana di Campaldino (oggi provincia di Arezzo), si
svolse la celebre battaglia tra i guelfi fiorentini e i ghibellini
aretini. L'esercito fiorentino era formato da fanti e cavalieri; tra
i cavalieri, in prima fila, c'era un giovane Dante. Questo fatto ci
ricorda che Dante prima d'esser studioso e poeta fu anche cavaliere,
il che implica una condizione economica quanto meno benestante. Non a
caso, più volte durante l'esilio, da adulto, si lamenterà d'esser
“senza cavalli e armi” e cioè d'esser diventato povero.
2)
Lo stemma
Sulle
bottiglie di Valpolicella dei conti Serego Alighieri ammiriamo uno
stemma con ala dorata in campo azzurro. Uno stemma che usavano
già i discendenti di Piero (figlio di Dante) nel Cinquecento. Ma si
tratta di stemma, cosiddetto “parlante”, creato da
un'interpretazione fantasiosa e arbitraria del cognome Aligeri,
cioè portatori d'ali.
In
realtà il vero stemma della famiglia di Dante ero uno scudo con oro
a sinistra, nero a destra e attraversato in orizzontale da una fascia
bianca.
3)
Il Fiore
Allora,
questo è ancor oggi dibattuto, ma d'altra parte almeno la metà di
quello che sappiamo di Dante è dibattuto! Comunque,
ufficialmente Dante scrisse questo poemetto, titolato “Il Fiore”,
dove per fiore si intende l'organo sessuale femminile, e narra della
difficile conquista del protagonista di un fiore appunto.
L'antefatto
è interessante perché dobbiamo sapere che Dante, al pari degli
altri letterati del suo tempo, sta cercando di capire se l'amore è
cosa buona o cattiva. A noi potrà sembrare strano, abituati come
siamo a ritenere l'amore una cosa bella e nobile, ma in realtà è
solo un fatto culturale. Ai tempi di Dante si riteneva che i
comportamenti dovessero essere guidati dalla ragione, e temevano che
l'amore, così profondamente irrazionale, li facesse invece agire in
modo non consono e inopportuno.
E
nel poema “Il Fiore” si argomenta contro l'amore,
presentandolo come una follia da cui occorre difendersi.
4)
Latino
Dante,
da bambino, studiò i rudimenti del latino. Il latino d'altra parte
era l'unica lingua che si potesse imparare a scuola, certo non si
insegnava il fiorentino o il lombardo ... Ma Dante era convinto che
il latino fosse una lingua inventata, così, a tavolino, per
permettere alle persone di comunicare oltre confine. Una sorta di
utilissima invenzione per rimediare ai danni creati dalla torre di
Babele!
5)
Bologna
Della
vita di Dante in generale si sa ben poco, ma si è quasi certi che
svolse parte dei suoi studi all'università di Bologna.
Dovete
sapere che i notai bolognesi avevano l'abitudine di riempire le
pagine rimaste vuote dei loro registri, trascrivendo poesie a loro
contemporanee.
Abbiamo
parlato di questa curiosa abitudine in un altro post.
Ebbene,
in uno di questi registri, un notaio trascrisse a memoria i versi di
Dante in cui il poeta descrive la Torre
Garisenda, che quindi, con molta probabilità, aveva visto di
persona.
6)
Verona
Dante
fu a Verona in più occasioni dopo il suo esilio da Firenze.
A
volte rischiamo di non comprendere appieno cosa significasse essere
esule, giacché, seppur restando in Italia, una prima grossa
difficoltà era la comunicazione. Dante ha messo le basi della
lingua italiana, ma ai suoi tempi nessuno parlava “italiano”.
Basti
pensare che agli inizi del Duecento, quando i frati francescani dal
centro Italia decisero di mandare una loro delegazione al nord
Italia, inviarono un frate che parlava lombardo e tedesco. Perché
lombardo e tedesco erano lingue straniere!
Ma
tutto era diverso: le abitudini sociali, le leggi, il cibo!
Non
a caso si lamentava “come
sa di sale lo pane altrui, e come è duro calle lo scendere e ‘l
salir per l’altrui scale”.
7)
Il marchese Moroello
Sembra
che abbiamo rischiato di non avere una Divina Commedia. Si
dice infatti che Dante, giunto al settimo canto, perse il manoscritto
e decise di rinunciare al compimento dell'opera.
Narra
il Boccaccio che il manoscritto fu poi ritrovato in un convento e
venne mostrato al poeta Frescobaldi, il quale certificò che si
trattava certamente di opera di Dante.
“E
avendo investigato e trovato che Dante era a quei tempi in Lunigiana
con un nobile chiamato marchese di Moroello, il quale era in
singularità suo amico, pensò di non mandarli a Dante, ma al
marchese, che glieli mostrasse, e così fece, pregandolo che, in
quanto potesse, desse opera che Dante continuasse la impresa, e, se
potesse, la finisse”. E fu così che il marchese di Moroello
convinse Dante a portare a termine la Commedia.
E'
quasi certamente una leggenda, ma è una bella leggenda :)
8)
Fiorenza
Agli
inizi del Trecento, in esilio da diversi anni ormai, Dante scrive la
canzone Amor da che convien pur ch'io mi doglia, con la
speranza che la canzone arrivi “a Fiorenza, la mia terra / che fuor
di sé mi serra / vuota d'amore / e nuda di pietate “. Spera
insomma che i suoi vecchi concittadini, così sordi ai suoi appelli e
senza alcuna pietà, capiscano infine che lui non è più un nemico.
Dante
scrive “Fiorenza” perché è così che la chiamano in tutta
Italia, ma i fiorentini non la chiamano più così, nel loro volgare
in continua evoluzione, la chiamano invece “Firenze”. Senza
rendersene conto, Dante era diventato davvero uno straniero per la
sua città natia.
9)
Parigi
Nel
suo lungo peregrinare, sembra che sia stato anche a Parigi, dove ha
dato dimostrazione della sua incredibile memoria, se è vero quello
che racconta Boccaccio quando dice: “essendo egli a Parigi, e quivi
sostenendo in una disputazione, come nelle scuole della teologia si
facea, quattordici questioni da diversi valenti uomini e di diverse
materie, con i loro argomenti pro e contra, fatti dagli opponenti,
raccolse e ordinatamente come poste erano state, recitò; quelle poi,
seguendo quello medesimo ordine, sottilmente solvendo e rispondendo
agli argomenti. La qual cosa quasi miracolo da tutti i circustanti fu
reputata”. Insomma fu come un giocatore di scacchi che vinse
quattordici partite in simultanea.
In
realtà non tutti credono a questo viaggio a Parigi, sembra invece
che si sia fermato ad Avignone.
I
parigini invece ci credono dato che la via dove pare soggiornò
l'hanno ribattezzata “Rue Dante”.
10)
Venezia
Nell'estate
del 1321, mentre era al servizio dei Da Polenta, Dante venne inviato
a Venezia per un'ambasceria. La sua ultima missione, ma lui non
lo sapeva.
Per l'occasione il doge Giovanni Soranzo organizzò un
pranzo a cui fu invitato assieme ad altri ospiti illustri. Ma
giunti alla portata del pesce a Dante vennero serviti pesci piccoli,
mentre ai suoi vicini di tavola pesci più grandi. Invece di
mangiarli Dante ne prese uno e se lo portò all’orecchio. Il Doge
incuriosito gli chiese cosa significasse e il toscano rispose che
essendo suo padre morto in quei mari chiedeva al pesce notizie di
lui. Al che il Doge chiese cosa gli avesse risposto il pesce. E
Dante rispose: “dice che lui e i suoi compagni qua nel mio piatto
sono troppo giovani e piccoli per saperne qualcosa, ma che in cucina
ce ne sono di grandi e adulti che certo mi sapranno dar notizia!”
Durante il suo soggiorno gli fu anche concesso di
visitare l’Arsenale, di cui ha lasciato una spettacolare
descrizione nel Canto XXI dell'Inferno.
11)
Dante dimenticato
(Lo
so, avevo detto dieci cose, ma voi mica potete credere a tutto quello
che vi si dice, suvvia!)
Fin
da subito la Divina
Commedia
ebbe un notevole successo sul suolo italico (però non si chiamava
così, ma semplicemente Commedia, anzi Comedìa in fiorentino
duecentesco, fu poi il Boccaccio che le attribuì l'aggettivo
“Divina”). Nel corso del Quattrocento cominciò a diffondersi
anche in Spagna, Francia, Inghilterra e Germania, conoscendo una
popolarità che durerà fino a metà del Cinquecento, quando Pietro
Bembo escluse Dante dai modelli d'imitazione letteraria. In
seguito, con la Controriforma, Dante conobbe addirittura la censura
ecclesiastica, fino ad esser quasi dimenticato. Dante ritrovò
poi il favore dei critici e del pubblico nell'Ottocento, durante la
stagione romantica. Attenzione: non in Italia, ma in Germania e
in Inghilterra.
Poi,
promosso appunto dalla critica straniera, venne riscoperto anche in
Italia.
Sarà
Francesco
De Sanctis a consacrare Dante quale modello d'altissima poesia e
simbolo risorgimentale.
Fonti: “Dante” di A. Barbero - “Vita di Dante”
di L. Bruni – “Cronica” di D. Compagni - Varie da F. Villani.