Il dramma del dubitatore è più grande di quello del negatore, perché vivere senza scopo è di gran lunga più difficile che vivere per una cattiva causa.
Il principale ostacolo al mio equilibrio è uno stato diffuso di non adesione, una rottura con l'essere, una negazione incerta di se stessa, non idonea, oltretutto, a tramutarsi in affermazione. Essa si adatta bene alle mie infermità mentali, e si adatterebbe ancor meglio a quelle di chi, stanco di negare, si trovasse all'improvviso senza occupazione. Smettendo di credere al male, per nulla incline al bene, si vedrebbe privo di missione e di fiducia in sé, reietto senza le consolazioni del sarcasmo.
Poiché l'affermazione e la negazione non differiscono qualitativamente, il passaggio dall'una all'altra è naturale e facile. Ma, una volta sposato il dubbio, non è né facile né naturale ritornare alle certezze che esse rappresentano.
Il grande valore pratico delle certezze, però, non deve nasconderci la loro fragilità teorica: esse appassiscono, invecchiano, mentre i dubbi mantengono una freschezza inalterata...
Infeudarsi, assoggettarsi, ecco l'occupazione principale di tutti; e proprio questo io rifiuto, perché so che “decidersi” equivale a “servire”, e ogni “non scelta” è una sfida al castigo.
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