venerdì 28 maggio 2010

La ragione del sacrificio

Fu il Buddhismo a cercare di stroncare, dovunque si espanse, la consuetudine dei sacrifici.
Per millenni l’intera umanità aveva praticato come rito essenziale e fonte di conoscenza l’immolazione di uomini e d’animali. Talvolta il sacrificio poté essere un suicidio (si ricordino le squadre di suicidi che nella Cina arcaica sgomentavano il nemico), talvolta si sacrificò una parte del corpo.
E’ un rito nato forse dall’esperienza immemorabile dell’animale più esposto del branco straziato dalle unghie e dalle zanne del predatore: reso sacro. Preservava i compagni perché la fame placata ammansiva la fiera. Immolazione e salvezza che furono poi trasposte al rapporto con gli dei.
La parola ‘divinità’ designa in latino anche la divinazione, il sacrificio che apre le porte all’intuito del futuro: rem divinam facere significava ‘offrire il sacrificio’, ottenere preveggenza e salvezza.
Ancora oggi i popoli africani rimasti fedeli alle religioni indigene, ritengono che il sacrificio rappresenti il cuore della religione, del rapporto con le divinità. Si intravede anche la natura intima delle immolazioni, come quando la persona che deve beneficiare del sangue versato si veste, in trance, delle viscere strappate alla vittima, sì da identificarsi con essa ovvero con la divinità che fruisce dell’uccisione (anche i sacerdoti aztechi indossavano la pelle insanguinata del sacrificato).
La cristianità divelse, apparentemente, ogni sacrificio antico, ma ci riuscì perché pose al centro della sua vita la contemplazione di una tortura deliberata, il culto di un sangue redentore e l’assunzione delle sofferenze come tributo sacrificale a Dio, che sconta così il peccato ereditario dell’uomo. In fondo nella Messa si ‘mangia’ Gesù. E il vino inebria, così preservando il trasalimento estatico del sacrificatore.
L’Islam abolì per parte sua i sacrifici antichi dell’Arabia, mantenne però almeno una festa annuale in cui scorre con esuberanza il sangue delle vittime e ingiunse un sacrificio animale da compiere durante il pellegrinaggio alla Mecca.
Soltanto l’illuminismo, oltre al buddhismo, escluse il culto sacrificale, ma l’applicazione delle idee illuministe celebrò decapitazioni ininterrotte e campagne militari che dovevano sorreggere lo Stato rivoluzionario.
Il sacrificio attuava il sacro, dava la sensazione del tremendo e affascinante, convocava la divinità, suscitava un’allucinazione e procurava il cibo. Ma, soprattutto, l’uccisione della vittima schiudeva l’accesso ad altri mondi.
Si dubita comunque che dall’ideologia sacrificale ci si possa mai affrancare socialmente: le milizie della guerra mantengono intatte le idee arcaiche, celebrano la scommessa sulla sopravvivenza, ci si offre alla morte e dopo la prova rimarrà memoria del sacrificio nella piazza del paese, la terra sarà consacrata dal sangue versato. La continuità degli dei patrii così si conferma, né potrebbe perpetuarsi in assenza di sacrifici.
Il sacrificio ammette, con lo sgomento che provoca, al mondo delle forme formanti, sottrae a quello delle forme formate. La mitologia d’ogni popolo configura a modo suo, secondo l’immaginazione atavica particolare, quelle forme supreme.
Anche la storia civile recente è per una parte ingente l’esecuzione di atti politici che sedano o scatenano questo potenziale.
Ogni comunità si fonda su uno spettacolo di puro strazio, su una spendita gratuita di sangue.
Lo sanno bene i mass-media che per fare audience bisogna parlare appunto di sangue
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