Per un certo periodo, agli inizi della storia documentata, si volle condurre una vita razionale in base a calcoli astronomici, ritenendo che il cielo suggerisse mutamenti di condotta. L'irrazionale in tale situazione diventa l'atto che si oppone al decreto astrale.
Le guerre mesoamericane del periodo maya, tolteco e azteco, si conducevano in rispondenza ai cicli di Venere. La vita di un re africano, del tipo accertato da Frobenius, rappresentava sulla terra una condizione celeste, al cui termine egli andava sacrificato.
Il primo a esporre questo sistema astrale di razionalità e quindi a fornire una lettura astronomica dei miti fu Dupuis (Dell'origine di tutti i culti), che fondò la sua interpretazione sul ciclo zodiacale letto a ritroso per effetto della precessione equinoziale. Quattromila anni fa, egli sosteneva, il sole apriva l'anno del Toro e a questa immagine furono improntati religione, arte e ordinamento politico.
Un ritorno, seppure in altro tono, all'impostazione astronomica si ebbe all'inizio del XX secolo allorché essa fu estesa a tutta la favolistica, per opera della scuola di Lipsia, il cui ispiratore era H. Winkler [1907], traduttore delle lettere di Amarna e direttore degli scavi che svelarono la civiltà ittita.
Egli diede un profilo della civiltà babilonese come retta non della spada ma dalla sapienza astrale. Ogni fenomeno che sulla terra si materializzasse risaliva alle energie numerabili, ovvero agli dei-numeri, che offrivano la griglia entro la quale tutto andava riscontrato. I templi fungevano da osservatori astronomici e da banche (dove il cambio tra oro e argento era di 13,50:1, equivalente ai giorni dell'anno solare e a quelli del mese lunare). Tutto acquistava razionalità in virtù della stella corrispettiva e del movimento celeste che imprimeva lo scatto terrestre.
L'impostazione della scuola di Lipsia riemerse con l'opera straordinaria di G. De Santillana [1969] nella quale si indaga la civiltà astrale di cui testimoniano i grandi miti d'ogni popolo della Terra.
La ricostruzione s'appoggia al ritorno costante nelle mitologie di certi numeri: 432.000 sono le porte del Walhalla norreno, mentre in India altrettante sillabe si contano nel Rg Veda, le cui strofe ammontano a 10.800, quanti i mattoni nell'altare del fuoco. Così 108 statue sono scaglionate per ogni via di Angkor Vat, per un totale di 432. Censorino informa che Eraclito assegnava 10.800 anni all'eone, e Beroso attribuiva 432.000 anni al Grande Anno babilonese.
In America emergono gli stessi archetipi di Mesopotamia, Siberia, India e Scandinavia; in ogni latitudine si serba dunque la traccia e forse il ricordo vivo di una scienza tradizionale che attorno a 7000 avanti fa insegnava, calcolando la precessione degli equinozi, l'arte di vivere.
Figura sempre ritornante, archetipo d'ogni mitologia è Cariddi, il miro gurge che i Nordici chiamarono Maelstrom o mulino d'Amleto: ha forma di clessidra poiché dalla strozzatura dell'imbuto si schiude il regno dei morti e dell'immortalità, quello medesimo di Osiride, di Ghilgamesh di Quetzalcoatl. La strozzatura rappresenta il gruppo di stelle ai piedi di Orione.
Ma lì c'è anche il fuoco, quello rubato da Prometeo, il Pramantha sanscrito, che designa il passaggio del sole equinoziale da un segno all'altro nello zodiaco.
Nell'epoca dei Gemelli il coluro equinoziale passava sulla Via Lattea, evento che i miti celebrano, inizio dal quale si calcola il tempo in Cina, Messico e Mesopotamia.
Si rilegga il racconto dei Cherokee, la storia dell'imbuto d'acqua vorticante al cui fondo si apre il mondo dei morti e dei giganti. E soprattutto quello dei Satloq della costa canadese del Pacifico, sulla vergine che scocca il dardo in quel Maelstrom, ombelico delle acque, così ottenendo il fuoco.
Mercé i Satloq si dischiude la mitologia greca, e da entrambe le fonti si risale alla verità astronomica: la freccia colpisce Sirio, la stella del mare.
Altra leggenda satloq racconta di un vecchio che grida alla figlia, vergine pigra ma brava arciera, di tirare all'ombelico delle acque per cavarne il fuoco, e costei gliel'ottiene, senonché il vecchio lo custodisce avaramente e un cervo decide di rubarglielo. Il cervo satloq è Prometeo, cioè Saturno, cioè Deus Faber, cioè Crono. Quel cervo, soggiunge De Santillana, è il tocco proto-pitagorico che diviene, in un altro racconto del Nordovest, ancor più esplicito: il picchio allorché sta per scoccare i dardi verso Sirio, alza un canto e quando intona la nota giusta i dardi in fila si saldano l'uno all'altro formando un ponte fra cielo e terra. È ben quel ponte di cui parlava Aristotele citando i pitagorici.
I miti americani come quelli d'Oriente diventano chiari trattati sulla precessione degli equinozi allorché si rammenti che in essi “terra” vuol dire il piano che unisce i quattro punti degli equinozi e dei solstizi, l'eclittica, ed è perciò quadrangolare. Nuove terre e nuovi cieli ciclicamente s'inaugurano causa la precessione, e di questi cicli parlano di cantori d'America come di Sumer, di Assiria come di Scandinavia, di Grecia come dell'India vedica.
Se avvenne una perdita di sostanza nel Medioevo greco e prima nel Regno Intermedio in Egitto, se andò smarrito il sistema del Tempo ordinato ciclicamente, da quell'età dell'Oro sono talvolta meno distanti di noi (cioè dei nostri antenati greci e latini) gli indigeni d'America.
De Santillana dichiarò: «Io sono storico della scienza ma mi sono abbandonato alla fuga nell'età antiche, e da storico della storia del pensiero greco che fui per qualche tempo, mi sono ritirato piano piano verso i millenni avanti Cristo. Le mie ricerche sul pensiero scientifico mi spinsero più in là, indietro nel tempo, e mi trovai in ambienti meno familiari e naturali, ma mi ci spinsi perché cercavo quale fosse l'origine di questa nuova cosa nel mondo che è il pensiero scientifico. E quando mi guardai attorno, là dove cessano i documenti scientifici strettamente detti, mi trovai in regioni dove si parlava senza alcun costrutto da un punto di vista scientifico. Si chiamava allora, questa cosa, materiale mitico e religioso. La parola religioso concede spesso ai dotti di non aver da cercarne il senso, e al traduttore di mettere insieme parole in libertà purché abbiano un certo senso poetico. Ma mi colpirono anche nei cosiddetti Primitivi, certi discorsi che dimostravano un costrutto effettivo che, seppure incomprensibile, si riallacciava certamente anche alla mitologia greca; e fidando nell'idea che questa gente non erano dei visionari, come qualche volta il traduttore li facevano apparire, e appoggiandomi alle grandi ricerche dell'etnologia culturale andai avanti, e ci vollero anni di schedatura e di ricerche critiche, ma via via era come se vedessi emergere un continente sommerso, come la cathédrale engloutie di Debussy, di cui ancora si sentono le campane sott'acqua. Era un continente nel tempo, non già nello spazio, era il mondo che conosciamo ma attraverso millenni scomparsi, diciamo almeno fino a 7000 anni fa».
Già nel volume Le origini del pensiero scientifico De Santillana parlò della “grande costruzione arcaica” su cui già si era posata la polvere quando i Greci entrarono in scena, tuttavia qualcosa di essa sopravviveva nei riti tradizionali, nei miti e nelle fiabe che nessuno più capiva.
In un colloquio dell'Unesco, nel dicembre del '65, De Santillana forniva altri accenni sull'astronomia arcaica, base del primordiale pensiero metafisico, per il quale fine supremo di ogni indagine doveva essere la conciliazione dell'uomo e del fato, tale il semplice fine che le scienze hanno smarrito del tutto nell'evo moderno.
L'uomo del primordi pensava non già secondo concetti rigidi ma secondo schemi come l'eclittica con le sue costellazioni, le stazioni degli astri, le zone celesti, quella strana uranografia dove si connettono cielo e terra sotto la dominazione dei signori planetari dall'inesorabile corso. Ma è anche un legame tra l'armonia e gli astri, l'armonia e le unità di misura, i principi supremi di esistenza che si denominano maat in Egitto e rtà ovvero “rito” in India.
E così l'alchimia fu combinata con l'astrologia, e poi l'astromedicina, le piante, i metalli, gli alfabeti, i giochi sapienti come gli scacchi, i quadrati magici come quello che sussiste nella Melancholia del Durer, il microcosmo combinato con il macrocosmo.
Il tutto non già disposto come un sistema logico, ma come una fuga musicale, come deve essere un vero organismo. Ce ne resta il numero e il ritmo, l'incidenza del momento unico, del tempo giusto, il kairos dicevano i Greci, che decide tra essere e non essere, poiché ci fu un tempo in cui il giusto era innanzitutto l'esattezza, e il peccato era la imprecisione.
(Fonte: Elemire Zolla – La nube del telaio)