Chissà perché questo
piccolo caffè mi piace tanto.
È sporco e triste, triste... Se
almeno qualcosa lo distinguesse da centinaia d'altri. Macché. Oppure
se ogni giorno ci venissero gli stessi tipi strani e da un angolo si
potesse osservarli, riconoscerli e più o meno (con l'accento sul
meno) abituarcisi.
Ma vi prego, non immaginate che quelle
parentesi siano una mia confessione di umiltà dinanzi al mistero
dell'animo umano.
No, no davvero. Io non ci credo all'animo
umano. Non ci ho mai creduto.
Secondo me le persone sono come
valigie - riempite con questo e quello, spedite, buttate di qua e di
là, scaraventate in aria, sbattute per terra, perdute e ritrovate, a
un tratto vuotate a metà, o stipate da scoppiare, fino a che
l'Ultimo Facchino le lancia sull'Ultimo Treno, e filano via
sferragliando...
Eppure, queste valigie possono avere un grande
fascino. Oh, grandissimo! Mi ci vedo di fronte, sapete, come un
doganiere.
“Niente da dichiarare? Vini, liquori, sigari,
profumi, seta?”
E il breve attimo di esitazione, subito prima
di buttare giù con il gesso il classico scarabocchio, al pensiero
che stiano per farmela, e l'altro attimo subito dopo, al pensiero che
me l'abbiano fatta, sono forse i due istanti più emozionanti
dell'esistenza. Almeno per me.
Ma prima di cominciare questa
lunga, peregrina, e in fondo non originalissima digressione,
intendevo dire con tutta semplicità che qui non c'è nessuna valigia
da esaminare, perché la clientela di questo caffè, signore e
signori, non si mette a sedere. No, resta in piedi, al banco, e si
compone di un gruppetto di operai che vengono su dal fiume, tutti
impolverati di farina bianca, calce o qualcosa di simile, e di pochi
soldati, accompagnati da ragazzette magre e nere, con anelli
d'argento agli orecchi e il braccio infilato nel paniere della
spesa.
Anche Madame è magra e nera, con le guance bianche e le
mani bianche. Con certe luci sembra proprio trasparente, risplende,
nel suo scialle nero, con un effetto straordinario.
Quando non serve siede su uno sgabello col viso rivolto sempre alla finestra. I suoi occhi cerchiati di scuro frugano e inseguono la gente che passa, e pure non cercano. Forse, quindici anni or sono, cercavano, ma ora quella posa si è fatta abitudine.
S'indovina dalla sua aria
stanca e scorata, che vi ha rinunciato da almeno dieci anni.
E poi
c'è il cameriere. Non patetico, decisamente non comico.
Mai che faccia una di quelle osservazioni totalmente insignificanti che stupiscono tanto in bocca a un cameriere...
(Incipit dal racconto "Je ne parle pas français" di Katherine Mansfield - Adelphi)
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