martedì 15 marzo 2011

Boezio e la Filosofia consolatrice

Le riflessioni più speculative circa l'essere unitario della divinità si accompagnano spesso con osservazioni sulla vita e l'esperienza umana. Questo vale, per esempio, anche per le "consolazioni" che si riferiscono al problema della teodicea. Ricordiamo la protesta di Giobbe: "Perché esiste il male, se Dio è buono?" o ancora: perché in questo mondo la fortuna arride così spesso ai malvagi? A quanto pare la filosofia elude il problema con un'argomentazione puramente formale: se Dio, che è l'essere, è buono e beato, allora il male non può che essere interpretato come un non essere.
Questa concezione di origine neoplatonica può essere avvalorata da un'osservazione psicologica alla Dostoevskij: il malvagio nella sua viziosa ossessione, fa proprio ciò che fondamentalmente non vuole. Sartre esprime lo stesso concetto con altre parole: il vizio è trovare piacere a rovinarsi.
Il malvagio, quindi, che di fatto perde il proprio "sé", somiglia a chi si fa schiavo della Fortuna: le sue passioni lo mettono in conflitto con l'autentica conoscenza di sé, in un certo senso si sconfigge da solo.
Alla Filosofia consolatrice però, che non può ancora fare appello alla psicanalisi, basterà citare Platone che, con il mito della caverna, ha rappresentato l'uomo prigioniero dei propri meccanismi mentali e la sua difficoltà a staccarsene.
Boezio arriva ad estremizzare il concetto: "Un torto, a chiunque sia fatto, costituisce infelicità non per chi lo riceve, ma per chi lo fa. Eppure gli avvocati si comportano in maniera opposta: essi infatti si sforzano di suscitare nei giudici compassione per coloro che hanno subito qualche ingiustizia, mentre la compassione sarebbe più giustamente dovuta a coloro che l'hanno compiuta; e sarebbe bene che a portarli in giudizio fossero accusatori non incolleriti, ma piuttosto benigni, e aperti alla compassione, come si fa con i malati che si portano dal medico, perché possano liberarsi della parte malata di colpa".
Ma Boezio continua, e a questo punto si interroga sul libero arbitrio, poiché se tutti gli avvenimenti fossero retti da una rigorosa casualità, nessuna colpa avrebbe più un responsabile, e tutta l'umanità verrebbe assolta per "incapacità di intendere e di volere".
La distinzione tra provvidenza e predeterminazione per Boezio non rappresenta solo il rifiuto del determinismo, del fatalismo, ma la presa di coscienza della propria libertà fin nella cella del condannato a morte. Il ragionamento speculativo ha dunque in primo luogo un significato esistenziale. Il fatalismo, per esempio quello stoico, avrebbe dettato a Boezio una ricetta più semplice: darsi un contegno, essere più forte del destino, "uno scoglio immobile nel mare in tempesta" come Seneca. Ma non è questo che a lui importa. Egli vuole superare la disperazione restando se stesso, in armonia con la provvidenza, ma sentendosi un uomo libero, lucido, assennato, senza il dolore solipsistico di chi si è chiuso in se stesso.

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