Il sogno è un luogo oscillante tra terra e cielo, tra le affezioni corporee e sensibili, che ne obnubilano la visione, e le aspirazioni dell’anima dischiusa a conoscere e migrare, a vedere chiaramente l’intelligibile.
Tra queste umane estremità si svolge il viaggio di Polifilo e la sua battaglia per trasformare dai lacci carnali a nuove qualità amorose, fino al “puro amore”: è il pellegrinaggio dell’anima e del corpo, ovvero l’Hypnerotomachia Poliphili.
Il percorso è arduo e mirifico perché la psiche è duplice nella debolezza e nella forza dei suoi desideri: tentata dalle illusioni ferine e mortali di questo mondo, attratta dalla virtù e dall’intelligenza delle cose immortali. Come il Lucio apuleiano transita dalla sua lasciva asinità alla compassionevole Madre Iside e ai suoi soterici misteri, così Polifico, il personaggio narrante, passa dal doloroso groviglio della cieca libidine ai lumi iniziatici e sublimi di Venere Madre, la cosmica, buona erotocrate. Dinanzi a essa si unirà infine alla guida e meta della sua volontà d’amore, ossia a Polia, figura sapientiae e nuova Beatrice.
Il sogno è uno specchio dove l’anima si guarda, perciò le immagini oniriche più che viste vanno osservate, e Polifilo è inesauribilmente attento, proteso com’è a soddisfare la sua filosofica curiositas attraverso la portentosa visio in somniis che lo investe e lo sconcerta.
Ma vediamo in breve la storia sognata, tenendo presente che il romanzo è stato pensato e composto secondo uno schema ternario. Tre sono in sostanza i livelli onirici “vissuti” dal protagosita, tre gli stati psicoerotici che attraversa: la passionalità irrazionale e adolescenziale, la liberalità d’amore che muta il giovane amante in uomo libero di scegliere, e l’amore puro nella sua duplice manifestazione di voluptas terrena e celeste.
La prima difficoltà che l’anima incontra è il graduale distacco dal corpo, affinché riesca a vedere, a distinguere le immagini che le si pongono davanti, oltre l’ostacolo dei richiami, distrattivi, del sensibile. Ecco che Polifilo si addormenta di nuovo, ma di un sonno profondo che lo fa sognare nel sogno.
Ma ancora un nodo va sciolto: placare, dopo i pesi somatici già addormentati, anche quelli psichici, avvicendamento che il Colonna rappresenta inventando prodigiosi marchingegni monumentali. Qui è l’onirologia di Macrobio a spiegare il perché di tante iperboli quantitative, altrimenti incomprensibili: difatti a chi, come Polifilo, si è appena addormentato e giace in una condizione tra la veglia e il sonno, è usuale che appaiano immagini di grandezza e aspetto inusitati, come quelle che il Colonna rappresenta. Si tratta dello stato chiamato phantasma in cui l’occhio dell’anima non ha ancora messo a fuoco la prospettica visione.
Polifilo ingaggia le sue iniziali battaglie superando il timore, principio di ogni sapienza, e poi astenendosi dall’irosa superbia; così l’anima sale, come insegna la mistica neoplatonica, con moto elicoidale (che ricorda quello del serpente kundalini lungo la spina dorsale) verso il Sommo Sole.
Il superamento di queste fatiche induce ad altre, dove l’anima duella ancora tra la libido carnale e una voluptas sapiente. E’ lo stesso Polifilo che deve riconoscere l’emblematico scontro tra l’erotismo infantile e arido degli adolescenti e l’incavalcabile virtuoso cavallo pegaseo.
Platone, in un celebre passo della Repubblica, spiega che soltanto acquietando le pulsioni irascibili e passionali dell’anima si può affidare il sogno alla sua parte razionale, la sola capace, grazie alla sua capacità noetica, di avere visioni veritiere.
Dopo gli iniziali luoghi scoscesi e inospitali, allusivi, con le loro asprezze, alle tormentate inquietudini della stessa psiche, si dipana finalmente una serena pianura, il locus amoenus, la cui dolcezza dà pace alle fatiche intraprese. Siamo nel regno di Eleuterillide, personificazione della Liberalità d’amore e, nel contempo, della Venere Natura che elargisce e feconda ogni bene. Qui si manifesta il credo morale e gnoseologico del Colonna, tracciato sul mesotes aristotelico: la savia via di mezzo che permette di raggiungere la conoscenza del vero Amore.
La guida che lo accompagna in questa parte del viaggio è la ninfa Polia, la sua virtuosa, sapiente amata: insieme giungono al tempio di Venere Physizoa e nel sacro sacello dell’edificio sono finalmente iniziati ai misteri della dea dell’amore, secondo una eclettica, straordinaria ricostruzione rituale.
Con essa il Colonna elabora una cultualità pagana personale, tessendola attraverso un sincretismo religioso che non trova precedenti, soprattutto negli aspetti teurgici che, evocando origini etrusche, sanciscono le più arcane affiliazioni.
La conoscenza degli effetti dell’amore non può prescindere dalla visione dei suoi risultati più tragici, pertanto Polifilo si reca a visitare il cimitero degli amanti sfortunati. Anche questo motivo riprende il topos medioevale della follia e della vanitas erotica ed eorica: il culmine tragico viene espresso dalla figurata discesa agli inferi di Polifolo, luogo immancabilmente terrifico dove, non casualmente, i dannati sono, per contrappasso, costretti a subire l’eterno ghiaccio o l’eterno fuoco a seconda che in vita siano stati dissipatori d’amore o frigidi amanti.
A Polifilo e Polia, degni adepti di Venere, non rimane che visitare il luogo dove alberga la dea stessa, l’isola di Citera: l’anima accede così all’Utopia, che il Colonna dipinge attraverso un caleidoscopio di simboli, come mai era stato fatto prima, e non lo sarà dopo, dalla prolifica lettaratura del “luogo che non c’è”.
Citera è l’eutopia di Venere generativa e ferace sovrana del giardino mondano, su cui tiranneggia l’eros vulgaris. Gli anelli concentrici sono, al loro interno, caratterizzati da spazi quandrangolari, al centro di tutto si erge il fonte di Venere a pianta ettagonale, perfetto simbolo di armonia cosmica.
Se i numeri e le forme geometriche, nitide ipostasi idelai, concorrono così a conferire valenze metafisiche all’isola del piacere mondano, in un connubio tra cielo e terra che ripropone miticamente la nascita della stessa Venere, apparsa nelle acque marine dei precipitati genitali di Urano, non è certo da meno, in sì rigogliosa celebrazione, la materia scelta dal Colonna per dare corpo alla sua spendida eutopia. L’isola è di rifulgente cristallo perché cristallini sono i cieli da dove proviene la dea; il suolo fertile e l’aria serena si nutrono di una inalterata, paradisiaca amenità: è il giardino delle delizie dove le piante, gli alberi, sagomati in meravigliose forme, e i più belli e profumati fiori ed erbe si sposano con marmi pregiati, con le gemme più sfolgoranti e preziose, in un concerto di suoni, canti e danze inimmaginabile a mente umana. E’ l’Harmonia mundi.
Vicino alla fonte, presso il sepolcro, le ninfe che hanno finora accompagnato Polifilo e Polia chiedono a quest’ultima di narrare il suo innamoramento: comincia così il secondo libro dell’Hypnerotomachia.
Ma mentre il primo libro è pervaso da un paesaggio ammantato da sterminate antichità visionarie, il secondo corre attraverso la cronaca. E’ l’anima che ricorda, e solo ora può compiutamente ricordare, perché a questo punto ha già vissuto e memorizzato il senso di tutto il viaggio:grazie al percorso appena compiuto nel primo libro è stata educata a sufficienza per la traversata del mare erotico. Non le è più necessario avere altre visioni mirabolanti per ascendere nella gnosi amorosa, adesso le basta la rievocazione storica, solido piedistallo, per intuire le concrete conseguenze del futuro, per accedere alla suprema visione del puro amor, a Venere Urania.
Così si coniugano i due estremi di ogni possibile amore, in un incommensurabile, mediano nodo simbolico che pacifica il corpo e l’anima, senza più battagliare, nel comune, reciproco donarsi.
Il palcoscenico e i personaggi che il Colonna si inventa per descrivere i vari reami, appaiono sostanzialmente ispirati dalla tradizione medioevale, ma anche, con perfetta e pertinente simmetria analogica, da immagini di matrice classica. Ne nasce così un imprevedibile lessico simbolico, marchio primario del linguaggio del Colonna e dei suoi neologismi iconologici e verbali, una sorta di orchestrato vocabolario, mai pretestuoso e sempre coltissimo, che si proietta di continuo nell’ardita ricerca e attuazione di un metalinguaggio, sintesi e superamento di tutti quelli che l’hanno preceduto. Da ciò l’inevitabile susseguirsi di inaudite architetture, di giardini d’incanto e raffinati motivi antiquariali, scanditi da scritte greche e latine, arabe ed ebraiche, come dai misteriosi geroglifici, tutti funzionali a tale polifonia pansemantica. In questo modo il dizionario del Colonna cela, dietro la sua vorticosa trama enciclopedica, di evocazione pliniana, un più ardito programma significante, quello di un theatrum mundi spirituale.
Il sogno è un’architettura dell’anima che innalza e decora edifici, dipinge paesaggi e configura esseri viventi grazie all’immaginazione creatrice, prodigo strumento pneumatico, intermediario che porge all’intelletto il musivo vocabolario dei sensi con le sue molteplici forme.
Come scrive Aristotele, lo stato onirico appartiene alla phantasia, “phantastice imaginatione” la chiama il Colonna, il quale conosce perfettamente l’ars imaginandi, tanto che in alcuni suoi passi ce ne offre un vero e proprio spaccato tecnico.
Nessuno, credo, ha come il Colonna utilizzato in maniera tanto vertiginosa e sensuale l’imaginatio nel viaggio onirico dell’anima, se Polifilo è addirittura capace di provare “imaginativo dilecto”. I sensi spirituali guardano, gustano, odorano, toccano in sommo, dolcissimo grado, in un gaudio incessante. L’imaginatio costituisce per Polifilo anche un necessario veicolo erotico, in quanto prezioso legame mentale con la sua amata.
L’intera Hypnerotomachia Poliphili appare tramata dai fili dell’immaginazione, efficace e deliziosa quando l’anima si allontana dal corpo in mistica catalessi per il viaggio onirico.
E’ al De insomniis di Sinesio che guarda il Colonna, là dove si conferisce alla phantasia uno statuto simile a una forma di vita che esiste secondo la sua specifica natura. Essa ha facoltà sensoriali proprie che permettono in sogno, spenti i sensi corporei, di provare speciali, vivissime sensazioni: Sinesio afferma che così si provano le più alte e nobili forme di percezione: nel sogno l’anima può aprirsi alla perfetta visione dell’essere e parteciparne.
Una simile attività onirica può essere debitamente accostata alle esperienze estatiche dell’epopteia misteriosofica e ultramondana dei Gentili. Ragguardevoli mi sembrano in proposito certe corrispondenze tra la vicenda di Timarco, narrata da Plutarco, e quella di Polifilo: entrambi, in stato di visione catalettica, mentre, addormentati, sognano secondo l’usanza dell’incubazione, provando il distacco dell’anima attraverso la sua fuoriuscita dal cranio e il suo ritorno: la testa è la sede naturale dell’anima secondo la fisiologia platonica.
Il Colonna semina il romanzo di tali, specifici riferimenti alle tecniche meditative e immaginative, come agli stati psicofisici che ne compartecipano, da far ritenere ch’egli traduca nel testo esperienze mistico-simboliche non solo letterarie, bensì dirette e personali, frutto di concrete e assidue pratiche interiori, del resto compatibili con la quotidiana religiosità di un frate.
Nel contempo si configura il parallelo con Apuleio, quando Lucio stabilisce che, a causa della propria umana incapacità di riferire ciò che prova per la dea Iside, rinuncia ad ogni espressione esteriore, e interiorizza la venerazione della sua divina effige nell’immaginazione contemplativa.
Il sogno è il ricordo che ne abbiamo e l’eclissi della sua memoria ne fa perdere ogni traccia. Asclepio ordinò a Elio Aristide di tenere diario dei propri sogni, altrettanto invita a fare Sinesio. L’Hypenrotomachia è il diario onirico di Francesco Colonna. Come in un fumetto animato, ogni vicenda segue ad un’altra conferendo successione mnemonica e senso logico alla storia narrata, sicché in fondo il sogno si può sfogliare come un diario. Quello di Polifilo è stato scritto e disegnato con due strumenti compositivi: l’immaginazione creatrice e l’arte della memoria.
Dall’insieme di queste considerazioni emerge palese la concezione storico-artistica del Colonna: essa nasce dalla fusione e sovrapposizione di due diverse fenomenologie estetiche, sfociando in quell’originalissimo sincretismo formale che caratterizza il testo. Da un lato l’iconologia delle immagini viene composta su modelli o stilemi classici e sulla rivisitazione filologica che ne fece l’Umanesimo, dall’altro l’insieme di questi dati antiquariali viene disposto e svolto concettualmente secondo l’estetica della luce medioevale, nel rispetto e in consonanza con l’incedere della psicomachia erotica di Polifilo.
Questo stretto dialogo tra natura, sentimenti e architettura, esemplato dal Colonna con tanta e tale efficacia espressiva, costituisce, a pieno titolo, una straordinaria anticipazione del gusto barocco e poi romantico, che mutueranno ampiamente il proprio linguaggio da certe formulazioni estetiche, tuttavia senza avere più quella risonanza metafisica che guida la penna e il pensiero del Colonna: per lui, uomo di radici medievali e di sapere umanistico, l’estetica è un disegno della gnosi dell’anima e non viceversa.
Significativo è che tanta ars aedificatoria sia contenuta in un tempo imponderabile: la visio di Polifilo infatti accade in un istante, perché l’attimo, nella sua immediatezza non discorsiva né discontinua, è condizione di lucente rivelazione, testimonianza di un numinoso contatto tra l’anima e la conoscenza ultima, come dichiarano Plotino e Sinesio.
Il sogno di Polifilo, per i profondi contenuti mistico-filosofici e cosmologici, per l’eccezionale veste verbale e iconologica che li dissimula, va considerato, oltre che il più alto monumento letterario-figurativo del Rinascimento, anche modello insuperato di creazione immaginale. A tutt’oggi appare come una proposta vertiginosa e una testimonianza dell’onnivoro desiderio di concupire filologicamente e coniugare ogni conoscenza possibile, dalle più arcane e antiche, egizie ed etrusche, alle più recenti e, nella seconda metà del Quattrocento, immediate: il sodalizio sapienzale che le connette e dirige è l’ascensus animae di conio neoplatonico, misteriosamente abbracciato all’amore cavalleresco, verso la superiore visione di una perenne philosophia Veneris.
Ma l’aurea catena della memoria dispiegata dal Colonna è affidata all’oscillazione dei sogni, che denudano l’altro mondo e lo vanificano al risveglio. Alla fine, sciolto il sogno, Polifilo rimane in presenza solo dell’impalpabile profumo di Polia, estrema, evanescente teofania di quella sapienza, appena prima degustata con i sensi dell’anima, con gli occhi dell’immaginazione, ora tornati a dormire a Venezia nella sveglia di un mattino di maggio del 1467.
Il sogno è uno specchio dove l’anima si guarda: Hypnerotomachia Poliphili http://tr.im/R39t
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