Ròbot
Robot
deriva dal termine slavo “robota” che significa “lavoro”;
era
il nome degli uomini artificiali ideati dal commediografo ceco Karel Čapek nel dramma utopico R.U.R. del 1920.
In
seguito il termine robot
prese ad indicare soprattutto organismi meccanici, mentre i robot di Čapek erano in realtà "replicanti", cioè umanoidi
organici prodotti da quella che in seguito si sarebbe definita
ingegneria genetica.
Nell'opera di Čapek i robot
vengono costruiti in una fabbrica ubicata su un'isola sperduta in
mezzo all'oceano. L'intento era di liberare l'umanità dalla
schiavitù della fatica fisica. Ma gli effetti sono catastrofici,
l'umanità reagisce male, affonda nel vizio e nell'indolenza, e le
nascite iniziano a calare in modo preoccupante. Dopodiché i robot,
ormai diffusi in tutto il mondo, iniziano a ribellarsi ai loro
creatori e a sterminarli. Vi ricorda qualcosa?
L'opera fu messa in scena al Teatro nazionale di Praga il 25 gennaio del 1921.
Secondo il mito, tutti gli dei erano stati invitati alle nozze di Peleo con Teti, eccetto Eris, la dea della discordia (e te credo, chi mai inviterebbe la dea della discordia ad una festa?), ma la dea della discordia non la prese bene e per vendicarsi fece portare sulla tavola del banchetto una mela (un pomo) d'oro, con l'iscrizione “alla più bella”.
Giunone, Minerva e Venere accamparono ciascuna le proprie pretese al dono per la più bella (in realtà anche alcuni maschietti, tipo Ganimède e compagni, avrebbero voluto partecipare, ma Giove tagliò corto, dicendo che non era ancora tempo di gay pride).
Si decise così di affidare il giudizio a Paride (mai decisione fu più difficile nella storia). Dopo lunga riflessione Paride proclamò “miss Olimpo” Venere (perché in segreto gli aveva promesso l'amore di Elena). Primo caso quindi di corruzione nel primo concorso di bellezza che si ricordi.
Ma ovviamente la sua decisione generò l'odio delle dee sconfitte, soprattutto di Minerva, che in seguito provocò la caduta di Troia, patria di Paride, menagramo della leggenda omerica.
Sincero
Fin
dai tempi di Michelangelo, gli scultori avevano l'abitudine di
nascondere i difetti delle loro opere colando cera fusa nelle
fessure, per poi coprirla con polvere di marmo.
Il
metodo era però considerato un inganno e, quindi, qualunque scultura
‘sine cera’
(senza cera) era considerata un'opera d'arte perfetta, pura,
autentica.
Questa
espressione latina “sine cera” coniò, successivamente, il
termine ‘sincero’.
Ancora
oggi, a volte, firmiamo le lettere con ‘sinceramente’
per assicurare all'altra persona che il contenuto del messaggio sia
vero, schietto, non contraffatto, appunto ‘sine
cera’.
A
tal proposito ho trovato in rete una riflessione su questa parola che
ho trovato semplicemente bellissima. Purtroppo non so chi sia
l'autrice perché si firma solo “Manuela G.”
Ho
pensato a quanto impegno mettiamo, ogni giorno, nel riempirci di cera
davanti a chi amiamo, per la paura che, sfregiati, non saremmo amati
per quelli che siamo davvero.
Quante
volte restiamo lì, a fissare il soffitto, a guardare fuori dal
finestrino di un autobus, un panorama, un tramonto, con un solo,
unico pensiero: «C’è
qualcuno disposto a stringere queste mie mani, i suoi graffi, la
pelle ruvida, ‘sine cera’?».
Perché
forse è questo il nostro desiderio più profondo. Trovare un “tu”
davanti a cui, con pudico tremore, scoprire le nostre crepe.
(
manuela g. )
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