domenica 19 agosto 2018

La coscienza è irrazionale


La coscienza è irrazionale perché e a-logica o per meglio dire pre-logica. 
Così come c'è una comprensione prescientifica, pre-logica dell'essere, che si colloca ontologicamente ancora previa ad esso, allo stesso modo c'è anche una comprensione pre-morale del valore, che è essenzialmente precedente ad ogni morale esplicita: si tratta della coscienza. 
La coscienza è irrazionale in quanto, nella sua immediata realtà di esecuzione, non è mai del tutto razionalizzabile, essa è sempre conseguente, è sempre suscettibile di una razionalizzazione secondaria: tutti i cosiddetti esami di coscienza sono da pensare solo come posteriori.
Allo stesso modo le deliberazioni della coscienza sono in nessun modo investigabili. 

(V. E. Frankl)


giovedì 7 giugno 2018

La fastidiosa esperienza del declassamento






 Si può notare che l'esperienza del declassamento non implica necessariamente un salto indietro rispetto alla propria condizione familiare di partenza, ma anche solo un passo indietro rispetto alle aspettative indotte dal sistema educativo o dal libero mercato.
Iosif Brodskij ha raccontato in Fuga da Bisanzio il suo disagio di poeta non riconosciuto dalla società e la necessità dolorosa dell'adattamento alle condizioni materiali dell'esistenza:
Una preferenza istintiva ci portava a leggere piuttosto che ad agire. Niente di strano se poi la nostra vita pratica fu più o meno un macello.
Anche quelli di noi che riuscirono a farsi strada nelle intricate selve dell'educazione superiore con tutte le inevitabili flessioni di ginocchia - e altri organi - al sistema, furono alla fine vittime di scrupoli imposti dalla letteratura e non poterono reggere oltre.
Finimmo con l'adattarci a strani mestieri, servili o pseudoculturali; o a qualcosa di banale come scolpire iscrizioni tombali, lavorare a un tavolo da disegno, tradurre testi tecnici, tenere libri contabili, sviluppare radiografie”.

mercoledì 25 aprile 2018

La fallacia del sopravvissuto e l'industria della speranza





La scelta volontaria di competere per i posti migliori ed evitare quelli peggiori, sembra essere, al membro della classe disagiata, e alla famiglia che lo finanzia, la più razionale possibile.

Si tratta di tentare di evitare ad ogni costo la minaccia del declassamento.
La fantascienza distopica dell'ultimo decennio - opere letterarie, fumettistiche o cinematografiche come Hunger Games o Divergent - ha incarnato alla perfezione le ansie di una società che sente di dover scegliere tra una competizione senza pietà per i pochi posti migliori e un destino miserabile, spesso descritto come peggiore della morte.
Insomma per chi dispone delle risorse sufficienti è considerato razionale prolungare gli studi universitari, perfezionare un proprio talento o accumulare relazioni, piuttosto che andare a raccogliere pomodori. In questo modo aumenteranno le probabilità di ottenere il successo nel proprio campo, Anche se dopo cinque, dieci o vent'anni vissuti da “vitelloni” come nel film di Fellini.
Personaggio esemplare di questo tipo di strategia è Richard Katz nel romanzo Libertà di Jonathan Franzen: cantante in uno sconosciuto gruppo rock fino all'alba dei 40 anni, barcamenandosi tra vari proverbiali “lavoretti”, d'un tratto diventa famoso e passa istantaneamente da sfigato a idolo delle folle.
Il successo di questo tipo di strategia, retrospettivamente, getta spesso una nuova luce sull'intero accidentato percorso che lo precede, creando una specie di illusione teleologica, ovvero l'impressione che il destino fosse già stato scritto.
Le scelte più folli sembrano d'un tratto decisioni coraggiose, gli sprechi prendono il nome di investimenti, e l'intera biografia di chi è riuscito a portare a casa il biglietto vincente diventa una parabola, spesso anche un modello per tanti che tenteranno di imitarlo.
Ma questa trasfigurazione non fa i conti con una gigantesca fallacia logica chiamata “bias del sopravvissuto”: perché di Richard Katz non ce n'è uno solo, ma centinaia anzi migliaia. Migliaia di aspiranti cantanti rock che hanno fatto tutti esattamente gli stessi passi, che hanno creduto nel loro talento, che hanno aspettato per anni e alla fine si sono ritrovati tra le mani un pugno di polvere.
Solo che non li conosciamo, oppure li dimentichiamo: la storia la scrivono i sopravvissuti, ma la loro testimonianza ha un valore statistico pressoché nullo.
La verità è che essere bravo, essere tenace, investire ogni risorsa non serve a nulla dal momento in cui tutti gli altri fanno esattamente la stessa cosa.
Ma ovviamente chi alla fine ottiene successo tenderà a credere di averlo meritato proprio grazie alla sua bravura, alla sua tenacia, alla sua follia.
Esiste tutta una letteratura “motivazionale” sull'argomento, tutta un'industria della speranza.
In effetti l'intera economia liberale funziona, oggi, sulla base di questo malinteso.
La macchina semplicemente non girerebbe se non esistesse la fallacia del sopravvissuto con le sue promesse alla portata di tutti.
La maggior parte dei rischi che prendono gli imprenditori quando creano un'azienda sono irrazionali ed eccessivi, e ugualmente quelli della classe disagiata quando i suoi membri decidono di affacciarsi su settori professionali ampiamente saturati sulla base di qualche vaga intuizione del proprio talento e della propria determinazione.
L'esistenza di questa fallacia permette di legittimare un “mercato duale”, come si suol dire, costituito da segmenti dal funzionamento radicalmente diverso: da una parte un segmento che funziona con contratti atipici e livelli salariali molto bassi, e un altro con contratti a tempo indeterminato e forti protezioni. Questa dualità si ritrova ad esempio nella segmentazione generazionale del mercato del lavoro, con una maggioranza di “giovani” da una parte e una maggioranza di “vecchi” dall'altra.
Ma cosa porta il primo segmento ad accettare condizioni tanto diverse dal secondo? Per l'appunto la speranza di accedere, presto o tardi, al segmento protetto. E come sorge questa speranza? Dalla fallacia del sopravvissuto, appunto, ovvero dalla narrazione secondo cui chi è bravo e determinato ottiene alla fine il successo.
L'illusione quindi crea la speranza.

(fonte: "Teoria della classe disagiata" di Raffaele Alberto Ventura)