venerdì 18 marzo 2011

Perché accanirsi a dipingere l'invisibile?

Nel Quattrocento la pittura conquista la profondità, ma conquistare non basta, bisogna occupare. Gli oggetti, grandi o piccoli, vengono sottoposti ad un ordine rigoroso, ma restano piatti. La distanza che li separa è solo un simbolo, una linea retta che pretende di conficcarsi nel muro e si limita ad arrampicarsi di sbieco nella tela. E' possibile fare di più? Dopo tutto è il paradosso della pittura: fare stare tre dimensioni in due.
Ogni generazione crede di cogliere la terza e di introdurla nei quadri, ma la generazione successiva non si fa ingannare e mostra ai suoi predecessori che non hanno afferrato nulla.. In tempi recenti  una delle fonti del cubismo è stata la ricerca di una nuova dimensione: ci si poneva al medesimo tempo davanti e dietro lo specchio, per sorprendere il rovescio delle carte e la faccia nascosta della realtà. Una volta invecchiati, li si è accusati di aver tracciato solo dei segni.
In certi pittori astratti mi sembra di trovare l'orgoglio inverso: rinunciano a questa ricerca vana e coltivano il loro giardino. Poiché si tratta di un piano, produrrà dei fiori piani; tanto peggio, la bellezza non si misura dal numero delle dimensioni.
Il problema è che la profondità assomiglia all'amore, uccello ribelle: non la volete più, ed è là...
Le soluzioni non cesseranno di essere false e non si cesserà di inventarne di nuove: l'arte è il luogo geometrico delle nostre contraddizioni.
Bisogna esser matti per dipingere, o per scrivere.

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